Rispetto alla prima serie di “Identit@sibillina”, il titolo di questo tema rappresenta un’evidente e, per certi versi, drastica soluzione di continuità, una linea netta di demarcazione tra due epoche e due scenari di contesto incomparabili. Il primo è ancora quello delle Marche isola felice, modello d’integrazione ritenuta virtuosa tra una vocazione socio economica ancora prevalentemente agreste, almeno in un’area vasta della regione, e la proiezione sui mercati, nazionale e internazionale, di un modello manifatturiero e aziendale medio-piccolo e a prevalente conduzione familiare, distribuito sul territorio per aree tipologiche di prodotto. Un’integrazione oltremodo mitizzata per lunghi anni e, addirittura, individuata come tratto valoriale e caratterizzante di una presunta identità specifica delle Marche, una sorta di brand con cui alimentare anche i primi vagiti della promozione turistica, che a questo profilo identitario regionale associava la tradizione dei borghi storici e i pezzi da novanta della tradizione culturale triadica: Raffaello, Leopardi, Rossini.
Il secondo scenario è quello post crisi economica del 2008, con l’avvio di un prosciugamento industriale, soprattutto del bacino fabrianese dell’elettrodomestico e del cartario, parallelo ad una contrazione dei mercati di altri comparti produttivi, come quello del mobile nel pesarese e del calzaturiero nel civitanovese-fermano, che solo ora sembra essere in netta ripresa. Altri fattori di crisi, di natura diversa da quella economica, si sono poi aggiunti negli anni successivi: l’alluvione premonitrice di Senigallia del 2014, il sisma del 2016, che ha fatto precipitare nell’area del cratere una porzione estesa del territorio regionale e un numero assai rilevante di centri storici, alcuni interamente distrutti, altri gravemente danneggiati. Tra questi Camerino, in particolare, si è segnalata, sia per l’estensione dell’area del centro storico inclusa nella “zona rossa” inagibile, sia per l’estrema difficoltà ad avviare la ricostruzione, che dopo otto anni sembra ora muovere i primi timidi passi con l’approvazione del piano comunale di cantierizzazione e in prossimità della scadenza del 31 marzo 2024 per la presentazione dei progetti di ricostruzione, dei consorzi e delle singole proprietà. Poi, dopo il sisma, è stata la volta della pandemia nel 2020. Poi ancora la guerra in Ucraina alle porte dell’Europa, con tutte le implicazioni geopolitiche ed economiche connesse e, ancora, nel 2022 l’alluvione con l’esondazione dei fiumi Nevola e Misa, che travolse decine di comuni marchigiani, lasciando insieme alle tonnellate di fango un bilancio tragico di 13 vittime, 30 feriti, 150 sfollati e due miliardi di danni. Cosa resta di “quel lontano mar, quei monti azzurri”, ricordati da Leopardi? Quanto e come è cambiato in questi dieci anni il paesaggio veduto e quello dell’immaginario collettivo nel territorio delle Marche, anch’esso drammaticamente interessato dall’incuria ambientale, eroso dalla cementificazione e dal consumo di suolo? Sono soltanto quelle lasciate dal terremoto le macerie di cui ci dobbiamo occupare e preoccupare? Oppure c’è una ricostruzione ancor più complessa e impegnativa che deve essere progettata in termini di rigenerazione territoriale, pianificata e resa operativa con gli strumenti che le sono necessari? E tale rigenerazione territoriale potrà limitarsi all’area del cratere o dovrà interessare molte altre aree interne della regione, non solo montane, come pure costiere? Ma torniamo alla ricostruzione, che non può prescindere dal coinvolgimento del tessuto e della vita sociale, delle attività formative e culturali, di quelle produttive, delle relazioni tra i diversi settori dell’economia, dell’innovazione tecnologica e digitale, della transizione ecologica. Tutte implicazioni, senza considerare le quali, ricostruire potrebbe significare edificare intorno al vuoto, invece che intorno ad una comunità, nel frattempo allontanatasi e dispersa dai luoghi d’origine. Quindi una ricostruzione-rigenerazione, che dovrà esprimersi con una riformulazione coerente e adeguata al nuovo scenario delle vocazioni territoriali. Vocazioni e non “identità” territoriali, perché questa parola va maneggiata con molta cura (non a caso compare nel titolo dell’Associazione e della rivista associata a “sibillina”, che la qualifica nei termini di un’entità indefinibile ed enigmatica, che la sottrae ad un’individuazione ontologica, statica e immutabile). Scrive Franois Jullien (L’identità culturale non esiste, 2018) “La trasformazione è alla base del culturale ed è per questo che non si possono fissare delle caratteristiche culturali né si può parlare dell’identità di una cultura…Quando abbiamo voluto scrivere un preambolo per la Costituzione europea, abbiamo pensato di definire che cosa fosse l’Europa, di metterci d’accordo sulla sua identità, ma la definizione di un’identità europea era impossibile e ci si infilava in un vicolo cieco…Non essendo riusciti a definire un’identità europea, abbiamo rinunciato a scrivere un «preambolo»… È anche vero, però, che una cultura nasce e si sviluppa sempre in una certa area e in un certo ambito, come ha pensato Nietzsche. La cultura compare sempre localmente, in una prossimità e in un contesto: in una lingua e in un ambiente, creando pregnanza. O, per meglio dire, non localmente ma focalmente; dal momento che la cultura si sviluppa sempre come un «focolare». E dunque attraverso il singolare – perché soltanto il singolare è creativo. Il dispiegamento della cultura è circostanziale: nella Firenze dei Medici o nella Vienna ebraica della fine del XIX secolo”. Ora che torniamo ad occuparci di identità, anche se sibillina, non possiamo fare a meno di riflettere insieme su questa parola che, ad esempio l’antropologo Francesco Remotti (L’ossessione identitaria, 2010), definisce avvelenata, “che promette ciò che non c’è,” una sorta di mitizzazione, tra l’altro relativamente recente, che si è diffusa con grande successo soprattutto in Europa, sull’onda dell’attuale fase storica interessata da un imponente e inarrestabile flusso migratorio, che ha determinato e sta ancora determinando reazioni di rifiuto e di arroccamento. Reazioni che hanno trovato, nell’accezione sostanzialistica del termine “identità”, una base solida determinata dall’intreccio di ideologia, mitizzazione ed emotività, su cui trasferire i contenuti di esclusione, separazione e confinamento, prima attribuiti al costrutto concettuale della “razza”, ormai talmente screditato scientificamente da richiedere un sostituto valido e aggiornato, che ad un’introvabile matrice genetica di riconoscimento, ne facesse corrispondere una nuova di tipo genericamente culturale.
Un altro fattore che ha determinato la diffusione e il successo della parola identità, è stata la reazione all’imperante omologazione culturale correlata alla globalizzazione. Da ciò è derivata una spinta a delimitare delle “riserve”, o “aree culturali protette” impermeabili alla uniformazione globale e a “denominazione d’origine controllata”, a cavallo tra un’etichetta di genuinità simile ai prodotti agroalimentari, e una dichiarazione di immunità da fattori artificiali esterni di alterazione, preliminare all’attribuzione di autoctonia, dal greco “autos chton”, “proprio di questa terra”. Su questa etimologia si è molto soffermato Maurizio Bettini nel suo saggio Contro le radici 2012, argomentando che l’autoctonia, ben rappresentata dalla metafora delle radici, indica un ambito di inclusione, un sentirsi comune, un “noi” isolato, bloccato nello spazio (immobilità) ed autoriproduttivo nel tempo (immutabilità), che esclude tutti coloro che non fanno parte di una lingua o di una tradizione culturale. Questa sarebbe la linfa vitale che dalle radici sale verso l’alto e alimenta i rami da cui tutti discendono, dando così uno sviluppo circolare alla metafora dell’autoctonia, che dal basso delle radici sale e discende dai rami, creando una discendenza che allude ad una comunanza congenita, in questo caso da una generazione all’altra dello stesso gruppo o comunità. E, in questo preciso passaggio, entra in argomento un’altra parola chiave, patrimonio, che rimanda alla trasmissione per eredità di beni che dal pater, ovvero da chi ci ha preceduto in linea discendente, vengono trasmessi ai figli. Ma quello culturale è un tipo particolare di patrimonio, costituito da beni comuni, di cui i singoli non si possono considerare proprietari se non in senso metaforico, perché come scrive François Hartog (Regimi di storicità, 2007) “il patrimonio, più che a definire ciò che si possiede, ciò che si ha, circoscrive ciò che si è, senza averlo saputo, o anche senza averlo potuto sapere. Il patrimonio si presenta allora come un invito all’anamnesi collettiva. Al “dovere” della memoria…”. Per ricordare occorre in primo luogo conservare, ma il significato del termine conservazione riferito ai beni culturali è tutt’altro che ovvio, soprattutto quando lo si deve applicare scegliendo le tipologie di beni materiali tangibili (ma sono molti anche i beni intangibili) da comprendere nel patrimonio,) che hanno titolo ad essere considerati meritevoli di conservazione, perché inclusi nel patrimonio. Tale scelta si pone anche in relazione alla teoria e alla pratica del restauro, in modo particolare architettonico, e alla progettazione urbanistica, soprattutto quando ad essere oggetto della progettazione non è un singolo edificio, ma un intero centro urbano o un territorio che riunisce più insediamenti abitativi (o di altra destinazione d’uso), o più centri urbani interrelati. Ovvero, i temi più attuali e caldi che in questo contesto temporale riguardano la ricostruzione post sisma nell’area del cratere. Un’altra fondamentale implicazione del patrimonio è quella relativa al paesaggio, nel suo rapporto indivisibile con l’ambiente, binomio sancito dalla Legge Costituzionale in materia di tutela ambientale 11-2-2022 n. 1, che ha modificato gli artt. 9 e 41. Il primo è stato così integrato:
Del testo legislativo è interessante sottolineare il riferimento all’ “interesse delle future generazioni”, che illumina ulteriormente la significazione del termine-concetto patrimonio, ovvero l’insieme di beni comuni la cui tutela e conservazione sono finalizzate ad un godimento che, certo, interessa il tempo presente, ma parimenti finalizzate alla trasmissione degli stessi beni alle prossime generazioni, quindi proiettate al futuro. A riguardo, è bene richiamare le recenti manifestazioni di associazioni e movimenti giovanili che, a fronte dell’insensibilità e incapacità dimostrate dalle classi dirigenti della maggior parte dei paesi nel mondo, di adottare politiche e singole decisioni adeguate alla gravità del cambiamento climatico e ad una reale transizione ecologica, hanno manifestato il loro disagio e dissenso sociale con eventi simbolici di contestazione del culto dell’opera d’arte e della bellezza, cui fa riscontro una strumentale e ideologica concezione del patrimonio, come ideale raccolta di capolavori, nonché del tutto dissociata dal binomio paesaggio-ambiente. Quanto si conciliano effettivamente questi due poli nella prassi di conservazione-valorizzazione del patrimonio? Non bene e non molto, non senza clamorose contraddizioni. Basti considerare il tema del turismo di massa, che è l’espressione più conclamata del godimento e della valorizzazione nel presente del patrimonio, ma che al contempo può diventare massa critica per la tutela e la conservazione nel futuro, sia di beni mobili, come di intere città, Firenze o Venezia insegnano. Con ciò venendo meno ad uno dei due mandati che il legislatore ha affidato alla norma di revisione costituzionale, ovvero quello di garantire alle generazioni future il godimento degli stessi beni del patrimonio, ivi compresi quelli pesaggistico-ambientali, godibili nel presente. La sfida appare davvero epocale e chiama in causa, da un lato l’incertezza del futuro, se non addirittura il suo carattere minaccioso, dall’altro lato un conseguente appesantimento del presente, sul quale esercitano la loro pressione due nuovi principi: il principio di responsabilità richiamato da Hartog e ripreso dal filosofo Hans Jonas, “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza della vita umana sulla terra”, e il principio di precauzione o teoria della sostenibilità, “ Soddisfare i bisogni di sviluppo delle generazioni presenti senza compromettere la capacità delle generazioni future di rispondere ai loro”.