Cosa resta della storia impressa in quella materia che ormai non c’è più?

Il restauro è un percorso di sensibilità, di emozioni e di sentimenti veicolati dalla materia che la mano dell’uomo ha creato e che il tempo ha modellato: il tempo passato, la mano dell’uomo e l’intelletto moderno che sa riconoscere a quelle tracce valore di memoria e di umana civiltà. Quelle pietre umili e antiche, frutto di mani senza studio, ci tramandano saperi antichi che fanno arrossire i nostri luoghi della conoscenza moderna. Le pietre comunicano emozioni e ci fanno capire il nostro passato, ci parlano delle comunità che le hanno riunite in un determinato modo e hanno sentito il bisogno di abbellirle.

Rispetto per la dignità delle costruzioni

Ogni costruzione del passato, anche la più umile, è stata realizzata per essere bella, armonica, funzionale, specchio di chi l’ha realizzata, ma anche testimonianza di vita quotidiana. È vivere l’emozione di sovrapporre le nostre mani su quelle di chi ci ha preceduto, mani caritatevoli fatte di carezze e di abbracci, mani tese verso quelle antiche. Quelle mani predisposte per l’accoglienza sono quelle del restauro che non respingono e non rifiutano, ma sono inclusive per ogni parte, anche quelle che sembrano essere insignificanti.

L’etica del restauro altro non è che il rispetto per la dignità delle costruzioni, dei luoghi e dello spazio che gli edifici occupano e per quello vuoto che li contiene; spazio pieno e spazio vuoto, in un continuo alternarsi e in un continuo crescendo di scala che ingloba l’intero territorio. È fuorviante e frustante parlare di una «ricostruzione» che si pone in rapporto con la preesistenza in prima istanza attraverso la demolizione. È un gesto che presuppone l’assenza di qualsiasi empatia, rigorosamente utilitaristico e freddamente razionale verso il passato. 

Dopo una ricostruzione con tecniche e materiali differenti, nell’ipotesi migliore con forme “conformi” a quelle demolite, cosa resta della traccia della storia impressa in quella materia che non c’è più, frantumata dalle benne a ganasce e portata in discarica per essere impiegata per sottofondo stradale? Niente. E si cancellano anche le relazioni che in quei luoghi si creavano, generate da quello spazio.

Egemonia di norme prive di sapere umano 

All’emozione di civiltà del restauro e della cura è stata sostituita la gelida e mortifera egemonia delle norme prive di sapere umano, impostate su lavorazioni seriali con materiali prodotti da una industria che rivolge la propria attenzione al profitto e alla deperibilità. Il progresso tecnologico inteso come accrescimento di ricchezza, appannaggio dei produttori e del mondo imprenditoriale, ha prodotto un regresso e un disprezzo per la tradizione costruttiva che non ha giustificazioni scientifiche.

La dimensione umana della necessità, realizzata con i materiali provenienti dai luoghi e presi dalla natura è stata soppiantata dalla rapacità-facilità/commerciale-produttiva che ha contagiato l’intera società. Il progetto di restauro conservativo senza percorso storico e senza visione bifronte, passato-futuro, intesa nella sua componente multi-disciplinare dell’intero campo umanistico e scientifico e senza i materiali tradizionali è solo un esercizio tecnico senza anima e senza spessore, banale nei presupposti e inevitabilmente distruttivo. 

Il progresso scientifico e tecnologico deve essere d’aiuto per la tradizione costruttiva, non veicolo giustificativo per sostituirla con materiali e tecniche diverse. In questa ricostruzione post sismica si è registrata una sensibile diminuzione d’interesse per le teorie e i principi posti alla base del restauro di tipo conservativo.

Tendenza già evidenziata da Paolo Torsello: «In questi ultimi decenni, quando l’intera Europa dichiara d’impegnarsi per la difesa e la valorizzazione dell’architettura, del paesaggio e degli oggetti d’arte e di storia, cala un imbarazzante silenzio sui principi e sugli obiettivi culturali che dovrebbero guidare l’azione di tutela. L’area del restauro che una volta era scarsamente frequentata, e anzi guardata con sussiego e disinteresse, risulta ad un tratto affollata» (P. Torsello, Che cos’è il restauro, Marsilio 2005).

Anche il mondo degli architetti…

È una profetica riflessione quella del prof. Torsello, che ha raggiunto nella fase della ricostruzione post terremoto 2016 un livello inimmaginabile. La pratica progettuale della ricostruzione è definita da una normativa tecnica ingombrante, egemonizzata dagli aspetti di tipo tecnico ed economico/ragionieristico, senza punti di colloquio con l’approccio umanistico multidisciplinare di cui necessita il processo di conservazione.

L’aspetto quantitativo della ricostruzione, con la mancanza di un opportuno e puntuale approfondimento teorico, ha soffocato l’elemento qualitativo. In molti casi il mondo professionale impegnato nella ricostruzione ha scarse basi disciplinari finalizzate alla conservazione, basi che, aggiunte alla impreparazione della classe politica a livello centrale, regionale e locale, non lasciano alcuna speranza per il futuro della conservazione. E anche il mondo degli architetti, professionalmente quello naturale per progettare la conservazione degli elementi storici, ha ceduto a una contaminazione pragmatica che ne ha depotenziato l’apporto culturale.

La figura dell’architetto conservatore non ha trovato alcuno spazio negli organismi decisionali della ricostruzione post sismica. Sono saltate anche le storiche competenze settoriali, quelle che assegnavano in via esclusiva la responsabilità dell’indirizzo e dell’approvazione dei progetti di restauro conservativo alle strutture delle cosiddette «Belle arti»: ministero della cultura, soprintendenze.

In questi sette anni di post terremoto si sono svolti una miriade di incontri egemonizzati tutti da tecnici, da politici, da economisti, con la presenza costante del dominus della ricostruzione, il commissario straordinario. La composizione del primo comitato tecnico scientifico è paradigmatica per comprendere l’impostazione culturale della fase della ricostruzione: nominato dal commissario straordinario di turno con l’ordinanza numero 11 del 2017, era composto da quindici membri, di cui cinque strutturisti, quattro urbanisti, due geologi, due esperti in tecnica dell’architettura, un impiegato amministrativo e un rappresentante della Protezione civile.

Nessun architetto conservatore, nessun esperto di tutela del patrimonio culturale, nessun restauratore, nessuno storico – men che meno storico dell’arte – nessun archeologo, nessun archivista, nessun filosofo, nessun sociologo. Solo tecnici strutturisti, urbanisti e geologi.

Pierluigi Salvati

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